Dolce Natale: roccocò e struffoli

Durante le vacanze natalizie è usanza diffusa in Campania terminare il pasto con dolci della tradizione partenopea. Tra questi spiccano i roccocò e gli struffoli. Ma quando sono nati e da dove trae origine il loro nome?

Una roccia dolce

Il roccocò, che etimologicamente rimanda a “roccia artificiale”, altro non è che una scherzosa alterazione nata nel linguaggio degli artisti e trae origine dal termine francese “rocaille” per la sua forma barocca e

Roccocò, dolce della tradizione napoletana

tondeggiante come una conchiglia: a cottura avvenuta il dolce è di una consistenza tale da sembrare una roccia. Storicamente parlando, la prima preparazione di questo dolce è databile al 1320 ad opera delle religiose del Real Convento della Maddalena.

I roccocò da sempre vanno consumati tranquillamente, con calma, ammorbidendoli in un buon vino da meditazione, nel vermut o in uno strepitoso limoncello,  durante le quattro chiacchiere fra amici e parenti, nei rilassanti momenti postprandiali. E’ immancabile sulla tavola delle famiglie partenopee durante i cenoni natalizi, unitamente ai mustaccioli e ai susamielli, con i quali ha in comune la cottura a forno e l’aroma del “pisto”, un mix di spezie di natura orientale: la cannella, inimitabile digestivo; i chiodi di garofano, miracoloso antinfiammatorio; la noce moscata, magico afrodisiaco; il coriandolo, potente antispasmodico. Questi aromi, opportunamente dosati e miscelati, entrano a far parte dei profumi dell’atmosfera natalizia e rendono il roccocò un perfetto dopo pasto dalle straordinarie virtù digestive ed euforizzanti ma, soprattutto, un magico dolcetto portafortuna immancabile nelle serate invernali.

Dolci palline

Gli struffoli sono i dolci più napoletani che esistano, anche se i loro inventori sono stati i greci, che li portarono nel Golfo di Napoli al tempo di

Struffoli, dolce della tradizione napoletana

Partenope. E dal greco deriverebbe il nome “struffolo”: precisamente dalla parola “strongoulos”, arrotondato. Due famosi trattati di cucina del 1600, il Latini e il Nascia, citano come “strufoli -o anche struffoli- alla romana” dei dolci preparati allo stesso modo degli struffoli napoletani. In Umbria e in Abruzzo lo struffolo si chiama cicerchiata, perché le palline di pasta fritta legate col miele hanno la forma di alcuni legumi, le cicerchie appunto.

Gli struffoli sono dolci misteriosi e nascondono infatti molti segreti, spesso custoditi gelosamente. Uno di questi sta nel miele, che deve essere abbondante. Senza di lui, un dolce non può definirsi veramente tale. Come simbolo della Dolcezza, il miele è un Mito: i gemelli Indiani Ashvin, messaggeri degli Dei, mangiano miele nel cielo mattutino, e la Bibbia racconta come Sansone estraesse dall’interno del leone, da lui ucciso, un favo d’api e di miele. La cosa lo mise di buon umore, tanto da spingerlo a formulare un indovinello: “dal divoratore è uscito il cibo, dal forte è uscito il dolce” (Libro dei Giudici, 14).

Un’altra regola aurea: negli struffoli non esistono clementi accessori. Tutto è importante, dai canditi ai diavolilli e soprattutto arancia e cedro candito. Ma la parte del leone (come nella pastiera e nella sfogliatella) la fa la zucca candita: la famosa “cucuzzata”. Un’ultima curiosità: il corpicino del bambino Gesù viene definito “roccia che dà miele”. Non è quindi un caso che gli struffoli siano un dolce tipicamente natalizio.

Francesco Attanasio

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